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Consumatori, privacy online e digital marketing

14 giugno 2021
di lettura

Come utenti digitali, disseminiamo spesso senza accorgerci una miriade di dati personali ogni giorno. Negli ultimi anni questo aspetto è passato sempre più al centro dell’attenzione e ha suscitato apprensioni di vario genere.Tuttavia, la situazione è tutt’altro che lineare. 

Un report di GWI rileva infatti che, se dal 2013 al 2019 gli utenti di internet preoccupati che la rete potesse avere un effetto negativo sulla propria privacy sono passati dal 56% al 61% (con un aumento del 5%), il 2020 ha segnato invece un cambiamento di paradigma e un atteggiamento, per dir così, “confuso” da parte degli utenti. Su questo ha influito molto la pandemia di Covid-19, che in certi casi ha contribuito a diminuire la percezione dell’importanza di alcuni aspetti in materia di privacy, pur mantenendo vivace il livello del dibattito.
Nei mesi scorsi il fiorire di app e sistemi di tracciamento dei contatti e la conseguente sorveglianza più stretta su spostamenti e interazioni tra individui ha fatto emergere elementi di inquietudine che possono essere rappresentati da due gruppi di persone:

  • coloro che temevano maggiormente il contagio e hanno pertanto scaricato la app;
  • coloro che temevano di più un’intromissione ingiustificata nella propria sfera personale e non l’hanno scaricata.

Fermo restando che questo genere di app garantisce l’assoluto anonimato, come è stato anche confermato dal Garante della privacy, il fatto stesso che si sia registrata una forte perplessità in merito, da parte di una larga fetta di popolazione, sottolinea quanto la tematica sia tuttora centrale. Questo spiega, almeno in parte, il motivo per cui l’attenzione alla privacy e le varie regolamentazioni in sede governativa o europea stiano inducendo anche i grandi player tecnologici ad adottare delle disposizioni che potrebbero interferire drasticamente con il mondo del marketing e della pubblicità digitale, due settori la cui efficacia dipende fortemente e sempre più dal tracciamento degli utenti.

I “biscotti” che Google non vuole e le nuove tendenze

Particolarmente importante, a tale proposito, è la decisione di Google, annunciata all’inizio dell’anno scorso, di bloccare i cookie (letteralmente “biscotti”) di terze parti su Chrome entro il 2022. In questo scenario, i professionisti del marketing digitale dovranno saper ri-orientare le loro strategie in tempi rapidi e risolvere il problema di rimanere rilevanti. Chrome infatti è attualmente il più importante browser a livello planetario, con una fetta di mercato di oltre il 64% (al secondo posto, con sensibile stacco, troviamo Safari, 18,70% e, a seguire, Firefox, 3,60%; dati aprile 2021, monitoraggio Statcounter). La mossa del colosso di Menlo Park contribuisce a collocare Google in posizione di netta dominanza di mercato, poiché il blocco di cookie terzi lascia aperta per gli inserzionisti solamente l’alternativa di utilizzare all’interno dei propri strumenti di marketing i dati proprietari di Google.

Parallelamente, però, si aprono anche prospettive interessanti per i marketer sul fronte della conquista della fiducia dei consumatori. È in atto, infatti, un’evoluzione del rapporto degli utenti digitali con la propria privacy, nel segno di una maggiore disponibilità a consentire l’accesso ai dati personali. Per fare solo alcuni esempi, a cavallo tra il 2019 e il 2020 in Italia il numero di utenti Internet che hanno dichiarato preoccupazione legata alla protezione dei dati è diminuito del 4%, mentre nello stesso periodo in Svezia del 12%, in Svizzera del 9%, in Cina e Argentina dell’8% e in Austria del 7%.

È rilevante notare che questo andamento, anziché essere un fenomeno temporaneo, potrebbe configurarsi come spia di un cambiamento di mentalità, che si consoliderà anche durante il cosiddetto “nuovo normale” post pandemico. In effetti, colpisce come soprattutto in Europa, che con il GDPR si è posta in prima linea sul fronte della privacy online dei consumatori, si sia registrato un calo così sensibile nella percezione dell’importanza della protezione dei dati personali, con il risultato che molti europei stanno abbracciando un punto di vista più aperto e disponibile.

Pandemia, salute e privacy

La ricerca di GWI menzionata sopra mette, come accennato, in rilievo la forte correlazione tra la preoccupazione di frenare la pandemia e la disponibilità da parte degli utenti ad affidarsi a soluzioni di tracciamento basate sulla ricezione e lettura dei dati veicolati dal proprio dispositivo mobile. Sebbene molti di questi metodi di tracciamento siano di fatto efficaci, nondimeno possono esporre a potenziali problemi di privacy, a seconda del modo in cui i dati sensibili sono identificati, archiviati ed elaborati.

L’aspetto indubbiamente interessante resta il fatto che l’esperienza pandemica ha suscitato in molte persone l’idea che la tecnologia sia in grado di aiutare a monitorare la propria salute, a prevenire possibili malattie o contagi e, in sostanza, a tutelare il benessere pubblico. A livello mondiale, infatti, ben il 30% dei consumatori afferma di fidarsi delle nuove tecnologie quando si applicano alla salute e la percentuale addirittura sale al 35% se consideriamo gli utenti che dichiarano di avere una forte attenzione alla propria privacy e protezione dei dati.

Alla luce di queste considerazioni è interessante chiederci in che modo i professionisti del marketing possono sfruttare un simile cambiamento di atteggiamento.

Nuove attenzioni dei brand nel marketing

Generalmente i consumatori decidono di acquistare un prodotto o servizio in base a un ragionamento basato sul rapporto costi/benefici. Accettano pertanto di pagare non solo nella misura in cui a loro avviso ne vale la pena, ma anche fintanto che conoscono i termini in materia di privacy. Quindi, la domanda che ci interessa riguarda quando e in che misura gli utenti digitali sono disposti a rinunciare a parte della loro privacy nel rapporto con i rivenditori o erogatori di servizi.

Una risposta a questa domanda è stata già rilevata, ossia quando si tratta della loro salute. Ne è un esempio il fatto che durante la pandemia sia aumentato del 46% a livello globale il download di app per la salute e il fitness, con l’India in testa (+156%). Questi servizi funzionano monitorando le prestazioni ginniche o i parametri biometrici del singolo utente, ossia tenendo traccia di una serie di dati personali delicati, che non sempre sono processati in ottemperanza alle normative sulla privacy.

Un’altra risposta afferisce a una tematica diversa, vale a dire la comodità. Condividere i propri dati, infatti, rende l’intera esperienza digitale più fluida e scorrevole, consentendo di ricevere contenuti allineati alle proprie preferenze, sconti su misura, alto livello di personalizzazione delle offerte etc. Ben il 41% dei consumatori globali, ad esempio, dichiara di non avere problemi a cedere sulla propria privacy in cambio di servizi gratuiti, anziché pagare e mantenere un maggiore grado di protezione.

L’aspetto centrale di questo discorso, in conclusione, ruota attorno alla fiducia dei consumatori. Per riuscire ad aggiudicarsela, i brand devono rendere più chiari i termini di servizio, con lo scopo di aiutare i clienti a compiere scelte ragionate e consapevoli. Gli utenti digitali hanno dimostrato di saper cedere sulla protezione dei dati quando ciò consente una maggiore tutela del proprio benessere e una migliore user experience online, ora le aziende devono dimostrare di saper ripagare i consumatori con comportamenti più trasparenti. In ambito marketing questo implica che, all’indispensabile azione di esporre e sottolineare i vantaggi che un prodotto o servizio porta al consumatore, fa sempre più da contraltare la necessità di presentarsi ai propri clienti senza zone d’ombra per quanto attiene alla raccolta, gestione e utilizzo dei dati personali.

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