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Dal “one-to-many” al “one-to-few”

12 gennaio 2019
di lettura

Negli ultimi mesi il termine algoritmo, riferito ai social media, ha assunto una notorietà che ha travalicato gli esperti del settore e ha raggiunto i commentatori politici e chi, a diverso titolo, partecipa con curiosità al dibattito pubblico.

Gli algoritmi però sono come un’opera di Bansky: quando pensiamo di possederli, si sono autodistrutti, quando li conosciamo, si sono nel frattempo evoluti nella forma e nella sostanza, nei fattori da cui sono costituiti e nei pesi da essi rappresentati. Del resto, quando una tecnica diventa di dominio pubblico, proprio allora dimostra la sua obsolescenza e presenta il rischio di invitarci a utilizzare un modello interpretativo che non è più al passo con i tempi.

Se con algoritmo intendiamo infatti l’insieme di regole attraverso le quali i social media determinano quale contenuto – editoriale o pubblicitario – pubblicano nei nostri feed e se ne cogliamo il ruolo fondamentale di “gatekeeper” dell’informazione che Facebook e Twitter posseggono, a mio avviso guardiamo ad un mondo ormai vecchio, in grado solo parzialmente di osservare e farci comprendere la realtà. 

Prendiamo Facebook, l’ambiente nel quale il concetto di algoritmo è parso negli anni come il deus ex machina utile a spiegare un fenomeno politico o a valutare la performance della presenza di un brand. L’algoritmo regola il flusso delle notizie a cui siamo esposti, ma su Facebook oggi spendiamo mediamente “solo” 37 minuti al giorno (1). Il resto del nostro tempo social lo trascorriamo su WhatsApp (28 minuti), su Messenger (27), su Instagram (27), luoghi dove l’algoritmo può poco e dove minore è l’incidenza del gigante di Palo Alto come arbitro della nostra informazione, del nostro umore, delle nostre scelte.

Le prime evidenze dello studio del Censis 2018 mostrano poi quanto diminuisca il ruolo di Facebook come edicola delle nostre giornate a causa delle fake news che lo inquinano o della narrativa intorno alle stesse. Ciò non significa che siamo tornati a leggere il giornale, ma che abbiamo spostato l’attenzione dal feed agli instant messenger, da Facebook a Instagram, dalla dimensione pubblica del social network a quella privata dei Gruppi a cui partecipiamo. La decrescita di Facebook come strumento di informazione dal 35% al 25,9% della popolazione è spiegato da questo cambiamento e dal suo minor uso da parte degli utenti più giovani.

La comunicazione stessa delle aziende - con l’introduzione e il sorprendente successo delle Storie - sta modificando il tempo che ancora trascorriamo sul feed rendendolo più di ascolto passivo e di taglio meno conversazionale, più di interazione diretta che di partecipazione a un confronto collettivo. 

Dalla comunicazione one-to-many, stiamo progressivamente ricorrendo ad una comunicazione one-to-one o one-to-few. Quando mai, del resto, i cittadini dell’Agorà si sono davvero confrontati con tutti gli altri? Non hanno invece usato l’Agorà per conversare solo alcuni?

Questo non significa però che i social media svolgano un ruolo minore nell’influenzare il modo con cui ci informiamo o nel modo con cui una comunità evolve i suoi comportamenti e le sue scelte. Al contrario, per quanto sempre più limitato, l’algoritmo non intraprende cambiamenti neutri, ma mette in campo modifiche che variano la nostra dieta informativa.

Dallo scorso gennaio godono di sempre più visibilità i post degli amici a discapito dei post pubblici e delle Pagine, è premiata la vicinanza geografica di chi scrive e sono più visibili le discussioni dei Gruppi e questi cambiamenti ci rinchiudono con decisione all’interno delle nostre cerchie sociali, affini per criteri semantiche o geografici, e in nome della maggior rilevanza che vogliono offrire alla nostra navigazione restringono le bolle informative in cui ci imprigionano.

Ovviamente questi cambiamenti influenzano anche le scelte di comunicazione da parte delle imprese. I brand più importanti, che nel tempo avevano già scontato un pronunciato calo della visibilità organica dei propri contenuti, stanno percorrendo tre strade parallele:

  • una crescita di competenze e budget legati alle soluzioni pubblicitarie che pian piano si stanno estendendo anche ai Gruppi ed alle Storie presenti su WhatsApp
  • l’esplorazione dei nuovi linguaggi consentiti dalle Storie
  • il cambiamento del piano editoriale di Pagine e, in misura crescente, la gestione diretta di Gruppi per fronteggiare non solo le penalizzazioni sofferte dalle tecniche di click- ed engagement-baiting, ma anche il minor peso dato ai post che producono like e reazioni, ma pochi commenti.

D’altro canto, l’uso dei Gruppi consente anche un tratto di maggior protezione sul fronte della brand reputation perché tali ambienti sono per lo più ambienti chiusi benchè decisamente più impegnativi quanto alla animazione e alla gestione della community: richiedono sensibilità molto diverse rispetto alla connotazione pubblica ed editoriale della Pagina e necessitano di una strategia ad hoc. Identificare cluster di utenti che abbiano un diverso ruolo nella community (lurkers, partecipanti attivi, curatori dei contenuti, …) e allineare tutti a fruire delle conversazioni in modalità sincrona e asincrona sono leve del community management che le Pagine non richiedono e quindi competenze diverse nei social media manager.

Migliorati anche dal punto di vista delle statistiche disponibili, i Gruppi offrono poi soluzioni tecniche (es. search interna, video live con desktop sharing nativo, …) e di marketing (collegamento con le Pagine, funzionalità di ingaggio dei nuovi membri, …) avanzate anche se mancano ancora molti aspetti utili, come il download dei dati degli iscritti e soluzioni pubblicitarie ad hoc per promuoverli.

Senza giocare la carte dei Gruppi del resto, i social media rappresentano per i brand solo o un canale di customer care o un paid media: in tutti i casi comunque tali attività richiedono competenze, budget e decisioni organizzative specifiche, tanto più avanzate quanto più le soluzioni pubblicitarie rese disponibili da tali piattaforme stanno diventando sempre più granulari e improntate ad un approccio che ormai richiede l’automazione dei processi di pianificazione e la relativa conoscenza delle tecnologie di programmatic advertising.

Le nuove funzionalità per controllare, dalle app di Facebook e Instagram, il tempo che vi spendiamo.

Se i social media cambiano e modificano il modo con cui influenzano il nostro stare insieme ed assumere informazioni sia sul piano sociale che commerciale, è dunque necessario che, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, il bambino non venga buttato via con l’acqua sporca: gli errori di Facebook – pur doverosi ancorché tardivi – dovranno lasciare il campo ad un più trasparente uso dei dati personali, da attuarsi sia nei confronti degli utenti che delle aziende inserzioniste. Ma dovranno anche favorire una educazione alla privacy più diffusa e consapevole, una sorta di risposta culturale ad un cambiamento che i social media hanno portato e da cui non potremo più prescindere.

(1) Fonte: Wearesocial, 2018

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